LA VOLPE E IL ROVO
Una volpe, nel saltare una
siepe, scivolò e, stando per cadere, s’aggrappò, come sostegno, a un rovo.
“Ahimè!”, gli disse tutta indolorita, quand’ebbe le zampe insanguinate
dalle sue spine, io mi rivolgevo a te per avere un aiuto, e tu mi hai conciato
ben peggio”. “L’errore è tuo, mia cara”, le rispose il rovo, “hai
voluto aggrapparti proprio a me che, d’abitudine, son quello che si aggrappa
a tutto”.
Questa favola mostra come siano stolti, anche fra
gli uomini, coloro che ricorrono per aiuto a chi, d’istinto, è piuttosto
portato a far del male.
Una volpe affamata vide dei grappoli
d’uva che pendevano da un pergolato e tentò d’afferrarli. Ma non ci riuscì.
“Robaccia acerba!”, disse allora fra sé e sé; e se ne andò.
Così, anche fra gli uomini, c’è chi, non riuscendo, per incapacità,
a raggiungere il suo intento, ne dà la colpa alle circostanze.
Una
volpe, vedendo un serpente coricato, fu presa d’invidia per la sua
lunghezza, e le venne voglia di uguagliarlo: si stese giù vicino a lui e cercò
di tendersi, fino a che, per gli eccessivi sforzi, la malaccorta crepò.
Questo capita a coloro che si mettono a gareggiare coi più forti: prima
di poterli raggiungere, vanno in malora.
LA
VOLPE CHE NON AVEVA MAI VEDUTO UN LEONE
Una volpe che non aveva mai veduto un leone, la prima volta che per caso
se lo trovò davanti, provò un tale spavento alla sua vista che quasi ne morì.
Avendolo però incontrato una seconda volta, si spaventò sì, ma non proprio
come la prima. Quando poi lo vide per la terza volta, trovò tanto coraggio da
avvicinarglisi e da attaccare persino discorso.
La favola mostra che
l’abitudine rende tollerabili anche le cose spaventose.
Una volpe penetrò nella casa di un attore e, frugando in mezzo a tutti i
suoi costumi, trovò anche una maschera da teatro artisticamente modellata. La
sollevò tra le zampe ed esclamò: “
Una testa magnifica! ma cervello, niente “.
Ecco una favola per certi
uomini belli di corpo ma poveri di spirito.
Un tale aveva una moglie
bisbetica all’eccesso con tutti quelli di casa. Gli venne voglia di sapere se
essa si comportava così anche nella famiglia del proprio padre, e trovò un
pretesto plausibile per mandarla da lui. Al suo ritorno, dopo pochi giorni, le
chiese come l’avevano accolta quelli di casa sua. “C’erano i bovari e i
pecorai”, rispose lei, “che non mi potevano vedere”. E il marito, allora:
“O moglie mia, se sei riuscita a farti odiare da quelli che escono all’alba
per portar fuori il bestiame e non rientrano che la sera, che cosa mai ci si può
aspettare da quelli con cui passavi l’intera giornata?”.
Così
spesso dalle cose piccole si argomentano le grandi, dalle cose manifeste si
arguiscono quelle celate.
Un imbroglione s’era impegnato con un tale a
dimostrare
che l’oracolo di Delfi mentiva. Nel giorno stabilito, prese in mano un
passerotto e, copertolo col mantello, andò al tempio, si fermò in faccia
all’oracolo, e gli chiese se quel che teneva tra le mani respirava o no. Se
gli fosse stato risposto di no, egli intendeva mostrare il passero vivo: se
invece gli fosse stato detto che respirava, l’avrebbe strozzato prima di
tirarlo fuori. Ma il dio, comprendendo il suo malizioso proposito, rispose:
“Smettila, uomo, perché sta in te far sì che ciò che hai in mano vivo
oppure morto”.
La favola insegna che la divinità non può esser colta
in fallo.
Un ricco Ateniese compiva,
insieme con altri passeggeri, un viaggio per mare. Si levò una gran tempesta
e la nave si capovolse. Mentre tutti gli altri nuotavano, l’Ateniese
continuava ad invocare Atena, facendole un monte di promesse, se mai riuscisse a
salvarsi. Allora uno dei naufraghi, che stava nuotando lì accanto, gli disse:
“Intanto che chiami Atena, muovi un po’ le braccia anche tu! “.
Noi pure, dunque, oltre a
pregar gli dèi, dobbiamo provvedere personalmente ai fatti nostri. E’ preferibile
guadagnarsi il favore del cielo coi propri sforzi, anziché esser salvati
dalla divinità mentre noi trascuriamo i nostri stessi interessi. Quando capita una
disgrazia, bisogna aiutarci con tutte le nostre forze e, così facendo, invocare
anche l’ aiuto di Dio.
Un uomo cieco si era abituato a
distinguere al tatto qualsiasi animale gli mettessero tra le mani. Una volta
diedero un lupacchiotto. Egli lo palpò, rimase incerto, e poi disse: “Io
non so se sia figlio di lupo, o di volpe, o di altro animale del genere; quel
che so bene, è che non è bestia da mandare insieme con un gregge di pecore”.
Con l’animo dei malvagi spesso traspare persino dal loro aspetto
fisico.
Le ranocchie, stanche di vivere senza alcuno che le governasse, mandarono
ambasciatori a Zeus, pregandolo di largire loro un re. E Zeus, vedendo la
semplicità dell’animo loro, buttò giù nello stagno un pezzo di legno. A
tutta prima, atterrite dal tonfo, le ranocchie si tuffarono nel fondo; ma poi,
dato che il legno rimaneva immobile, risalirono a galla, e giunsero a tal punto
di disprezzo per il loro re che gli saltarono addosso e vi si accomodarono
sopra. Infine, vergognandosi d’avere un sovrano di tal fatta, andarono
nuovamente da Zeus, e lo pregarono di mandarne loro un altro in cambio, perché
il primo era troppo indolente. Allora Zeus perdette la pazienza, e mandò una
biscia d’acqua, che cominciò ad afferrarle e a divorarsele.
La favola mostra che è meglio avere governanti
infingardi ma non
cattivi, piuttosto che turbolenti e malvagi.