LA CORNACCHIA E IL CORVO
La cornacchia, gelosa del corvo,
il quale dà auspici agli uomini, prevede il futuro ed è perciò da essi
invocato
come testimonio, si mise in testa di fare altrettanto. Vedendo
passare dei viandanti, volò su un albero e piantatasi là, cominciò a
gracchiare a tutta forza. Al suono della sua voce, quelli si volsero spaventati,
ma uno disse subito: “Niente, niente, amici, andiamo pure avanti. E’
soltanto una cornacchia, e le sue grida non significano nulla”.
Così
anche tra gli uomini, chi si mette a gareggiare coi più potenti di lui non solo non riesce ad uguagliarli, ma si guadagna
anche le beffe.
Una
cornacchia che offriva ad Atena una vittima, invitò un cane al banchetto
sacrificale. “Perché sprechi i tuoi quattrini in sacrifici?”, le chiese il
cane. “Tanto,la dea ti ha così in uggia che impedisce alla gente di credere
ai tuoi presagi”. E la cornacchia: “Ma io le offro i sacrifici proprio per
questo. Cerco di conciliarmela, dato che mi vede di mal occhio”.
Così ci son molti che, per paura, non esitano a beneficare
quelli che li odiano.
Un contadinello faceva arrostire delle chiocciole e, sentendole
crepitare, diceva: “Brutte bestie, mentre le vostre case bruciano, voi vi
mettete a cantare”.
La favola mostra che tutto quel che si fa fuori tempo è biasimevole.
Un signore allevava insieme un’oca e un cigno, non allo stesso scopo,
naturalmente, ma l’uno per il canto e l’altra per la mensa.
Quando giunse il momento in cui l’oca doveva far la fine per cui era stata
allevata, era notte, e il buio non permise di distinguere l’uno dall’altra.
Così fu preso il cigno invece dell’oca. Ma ecco che esso intona un canto,
preludio di morte; col canto rivela la sua natura e, grazie alla sua voce,
sfugge al supplizio.
La favola mostra come spesso la musica riesca a differire la morte.
Dicono che i cigni si mettano a cantare al momento della morte. A un tale
capitò di veder messo in vendita un cigno e, sentendo che era un uccello dal
canto dolcissimo, lo acquistò. Un giorno che aveva ospiti a tavola andò ad
invitarlo perché cantasse alla fine del banchetto, ma in quell’occasione il
cigno rimase zitto. Giunse però il giorno in cui sentì vicina la morte, e
allora intonò il suo canto di dolore. Il padrone, sentendolo, disse: “Ma
se tu non canti altro che quando stai per morire, lo stupido ero io, che stavo
lì a rivolgerti delle preghiere, invece di ammazzarti”.
Così anche tra gli uomini ci son quelli che, ciò che non voglion fare
per piacere, lo fanno poi per forza.
Un tale che aveva due cani ne addestrò uno alla caccia e allevò
l’altro per guardia della casa. Quando poi il primo, andando a caccia,
prendeva della selvaggina, ne gettava una parte anche all’altro. Allora il can
da caccia, sdegnato, cominciò ad insultare il compagno, perché lui andava
fuori, sobbarcandosi a continue fatiche, mentre l’altro godeva il frutto del
suo lavoro, senza far nulla. Il cane domestico gli rispose: “Non con me devi
prendertela, ma col nostro padrone, che mi ha insegnato, non a lavorare, bensì
a sfruttare il lavoro altrui”.
Così non si possono biasimare i fanciulli pigri, quando li rende tali
l’educazione dei loro genitori.
Certe cagne affamate che avevano visto delle pelli messe a bagno
nell’acqua d’un fiume, non riuscendo ad afferrarle, stabilirono tra di
loro di ber prima tutta l’acqua, per poter poi arrivare ad esse. Ma andò a
finire che creparono a forza di bere, prima di giungere a toccare le pelli.
Così ci son uomini che, nella speranza di un guadagno, si sobbarcano a
pericolose fatiche e, prima di raggiungere il loro scopo, si rovinano.
Un cane, abituato a ingollarsi delle uova, vide una conchiglia; convinto
che fosse un uovo, spalancò la bocca e con un violento sforzo riuscì a
mandarla giù. Quando poi sentì il peso e i dolori di stomaco: “Ben mi
sta”, disse “perché m’ero messo in testa che tutte le cose fossero
uova”.
Questa favola ci insegna che chi affronta un’impresa senza riflettere può
impensatamente trovarsi impigliato fra strani fastidi.
Un cane da caccia che aveva catturato una lepre, un momento la mordeva e
un momento le leccava il muso. “Ehi, tu”,
gli disse, sfinita, la lepre, “o
smettila di mordermi o smettila di baciarmi, ch’io possa capire se sei per
me un amico o un nemico”.
Questa
è una favola adatta per un uomo ambiguo.
Un cane balzò dentro una macelleria e, mentre il macellaio era
occupato, afferrò un cuore e se la diede a gambe. Il macellaio si volse e,
vedendolo fuggire, esclamò: “Ehi,
galantuomo! Sta’ pur certo che ti terrò d’occhio dovunque tu sia; il
cuore non l’hai mica portato via a me,
sai; anzi a me ne hai aggiunto dell’altro’.
La favola insegna che le sventure servono di
ammaestramento agli
uomini.
Un topolino correva sul corpo di
un leone addormentato, il quale si svegliò e, acchiappatolo, fece per
ingoiarlo.
La bestiola cominciò a supplicare di risparmiarlo e a dire che, se ne usciva
salvo, gli avrebbe dimostrata la sua riconoscenza. Il leone scoppiò a ridere e
lo lasciò andare. Ma dopo non molto gli capitò un caso in cui dovette
davvero la sua salvezza alla riconoscenza del topolino. Alcuni cacciatori
riuscirono a catturarlo e lo legarono con una corda a un albero. Il topo allora
udì i suoi lamenti, accorse, rosicchiò la corda e lo liberò, soggiungendo:
"Tu, quella volta, t’eri fatto beffe di me, perché non immaginavi mai di
poter avere una ricompensa da parte mia. Sappi ora che anche i topi sono
capaci di gratitudine”.
La
favola mostra come, col mutar delle circostanze, anche i potenti possono aver
bisogno dei deboli.
Il leone e l’onagro andavano a
caccia di bestie selvatiche, il leone mettendo a profitto la sua forza, e
l’onagro la velocità delle sue gambe. Quando ebbero catturato una certa
quantità di selvaggina, il leone fece le parti; divise tutto in tre mucchi, e
dichiarò: “La prima spetta al primo, cioè a me che sono il re. La seconda mi
spetta come socio a pari condizioni. Quanto a questa terza, ti porterà ben
disgrazia, se non ti decidi a squagliarti”.
Conviene commisurare ogni nostra
azione alle nostre forze, e coi più potenti di noi non immischiarsi né
associarsi.
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