Il
conte zio, dunque, ferito nel suo orgoglio dal racconto del conte
Attilio, ne accoglie l’invito di interessarsi presso il padre provinciale, per
l’allontanamento dell’incomodo padre Cristoforo.
L’autore
comunque non manca di lanciare i suoi strali, poiché il padre provinciale con
la sua decisione impedisce al frate di svolgere, secondo le regole, la sua
missione di carità; di fare del bene a dei poveri perseguitati.
Il
dialogo, tuttavia, tra questo strano padre provinciale e il conte zio è
un capolavoro artistico: il loro linguaggio è ricco di sottigliezze, di frasi
pronunziate a metà, di discorsi ambigui; e tutto ha un solo fine: impedire a
padre Cristoforo di proteggere gli indifesi.
Padre
Cristoforo — dice con sottile perfidia il conte zio al padre provinciale, per
indurlo a trasferirlo — « è un po’
amico dei contrasti ». E per mettere ancora in cattiva luce il frate, non
manca di giocare di fantasia. « Mio
nipote è giovine » — dice —«
il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni
d’un giovine ». E’ giusto quindi che interveniamo noi che abbiamo più
anni e più giudizio; bisogna «
allontanare il fuoco dalla paglia».
Con questo
colloquio il conte zio riuscì a persuadere il padre provinciale a trasferire
padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini.
La
seconda parte di questo capitolo è dedicata alla descrizione «
d’un terribile uomo, » al quale don Rodrigo si rivolge, per portare a
compimento la sua impresa.
Anche se
costui è un personaggio realmente esistito, è ugualmente una stupenda e
geniale creazione manzoniana. Di lui si scrisse molto, ma nessuno osò palesare
il suo nome. Il Rivola lo definisce « un signore altrettanto potente per ricchezza, quanto nobile per
nascita ». Il Ripamonti lo giudica uomo che «assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i
giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente;
ricettatore di fuorusciti, fuoruscito un tempo anche lui; poi tornato come se
niente fosse... ».
E’ costui,
che il Manzoni dice di esser costretto a chiamare l’Innominato, al di sopra e
al di fuori della legge, e arbitro delle faccende altrui, è temuto e ossequiato
da tutti. Superiore a tutti per ricchezze, coraggio e temperamento, ha molti
amici «subordinati
», ed è stato catastrofico con coloro che hanno voluto rivaleggiare
con lui. « Anche alcuni principi esteri
si valsero della sua opera, per qualche importante omicidio ». La sua casa,
dice ancora il Ripamonti, « era come
un’officina di mandati sanguinosi ». Unico lato positivo del suo
carattere è quello di essere leale, di non ricorrere ad intrighi meschini.
Qualche volta ha prese le parti dei deboli e degli oppressi e ha costretto
l’oppressore « a riparare il mal fatto,
a chiedere scusa »; ed in tal caso il suo nome, tanto temuto e odiato, è
stato benedetto, perché quella giustizia, allora, non si poteva ottenere «da nessun’altra forza né privata, né pubblica ».
Perciò don
Rodrigo, che è sì un prepotente, ma non certamente un «
tiranno selvatico », non avendo né le forze, né la capacità, di rapire
Lucia, e volendo « dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori
della vita civile », accompagnato dal Griso e dalla solita combriccola di
bravi, una mattina si avvia al castello dell’innominato.
