Questo
è un capitolo in cui l’autore non solo descrive la strage fatta dalla peste,
portata con la calata delle truppe alemanne, ma mette anche in evidenza
l’incuria e l’incapacità delle autorità per porvi rimedio. Egli indagherà
con diligenza e con correttezza morale, pur disponendo di documenti
spesso contraddittori, per tracciare un quadro, succinto, ma chiaro, della peste
che vuotò sinistramente città e villaggi per lungo tempo.
Malgrado il
medico Lodovico Settala, certo dell’esistenza della peste, ne avesse informato
il tribunale della sanità, non è preso al riguardo alcun provvedimento; anzi
si dice che quel male non è peste, ma «
effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi» o effetto dei disagi e
degli strapazzi, dovuti al passaggio delle bande nemiche. Anche quando il male
si estende e aumenta di intensità, e il numero delle mortalità è
spaventevole, e i segni della peste sono inconfondibili, l’autorità è lenta
ad interessarsi.
Il nuovo
governatore, Ambrogio Spinola, sostituto di don Gonzalo, insensibile e indolente
alle sofferenze della gente, non indugia a confessare che è più preoccupato
della guerra che della peste; anzi, per onorare la nascita del principe Carlo,
primogenito di Filippo IV, malgrado il male imperversi, organizza pubbliche
feste.
Sebbene la
peste ormai serpeggi pericolosamente, ciò che desta meraviglia, oltre
all’incuria delle autorità, è che quella parte di popolazione non ancora
contagiata, non vuol sentire parlare di peste, non intende prendere alcuna
precauzione, per restarne immune; se qualcuno ne fa cenno, è accolto « con
beffe incredule, con disprezzo iracondo».
Quando le
malattie divengono più frequenti e le morti altrettanto numerose «
con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni» ed altri segni ancora, che
non lasciano dubbi sulla natura del male, quei medici che avevano sconfessato la
peste, dovendo dare un nome al male tanto funesta ed implacabile, dicono che si
tratti « di febbri maligne, di febbri
pestilenti» un gioco di parole, « anzi
trufferia di parole » con cui, pur riconoscendo l’esistenza del male, si
cerca di non farla credere agli altri.
Quantunque la
popolazione fosse decimata dal morbo, ogni giorno nel lazzaretto aumenta a tal
punto che le autorità preposte non riescono a governare ordinatamente, e a
porre rimedio alla « sfrenatezza di
alcuni rinchiusi;» perciò si affida il governo del lazzaretto ai
cappuccini, guidati da padre Felice Casati.
Costui, uomo
dall’animo mansueto e vigoroso nello stesso tempo, coadiuvato da padre
Pozzolonelli e da altri cappuccini, con spirito di sacrificio ed eroismo si
prodiga per alleviare le pene degli infelici. Egli di giorno e di notte gira in
lungo e in largo per il lazzaretto che rigurgita di ammalati, regala tutto ciò
che è in suo possesso, placa i tumulti, minaccia e punisce.
Tutti i
religiosi, e padre Felice in testa, durante il loro governo al lazzaretto,
durato sette mesi, e dove si calcola siano stati ricoverati circa cinquantamila
persone, accorrono ovunque per lenire le sofferenze e i mali altrui, noncuranti
dei propri; opera quanto mai meritevole, perché esplicata senza nulla
pretendere, solo per carità cristiana.
Ora che il
male è evidente, che è impossibile non ammetterlo, coloro i quali l’avevano
negato per così lungo tempo, parlano di « arti vene fiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la
peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe ». Ad inculcare bene
quest’idea nella mente della popolazione, lo stesso re di Spagna, onde mettere
in cattiva luce la Francia, sospetta di mire espansionistiche in territorio
italiano, informa il governatore di Milano che « quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi,
pestiferi » erano scappati da Madrid, che quindi il governo stia in guardia
che non capitino a Milano.
E come se ciò
non bastasse, come a volere accrescere la confusione, o a seminare il terrore
tra la popolazione, o per cattivo gusto, o per qualche altro scopo recondito, si
vedono « le porte delle case e le
muraglie per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola,
biancastra».
Questa
trovata, di facile presa sul popolo, che serve a scagionare in certo qual modo
le autorità locali, provoca una situazione spaventosa in mezzo all’infuriare
di tanto male. Fra le tante supposizioni che si fanno, incomincia a prendere
consistenza quella secondo cui la peste è stata causata da « quella
unzione velenosa. » Bisogna quindi scovare gli untori!
