Questo
è un capitolo in cui il Manzoni abbandona di nuovo i suoi personaggi per
tracciare un quadro storico degli avvenimenti successivi alla sedizione di San
Martino che ebbe come conseguenza un ribasso del prezzo del pane; un ribasso
che risultò fatale in quanto la plebe, affamata, si abbandonò ad uno sfrenato
consumo, e troppo tardi se ne avvide delle conseguenze disastrose perché così
facendo, non solo rendeva impossibile una lunga durata « a
goder del buon mercato presente» ma addirittura ne impediva «una
continuazione momentanea». Anche i contadini abbandonavano la campagna e
si riversavano in città; la situazione era destinata a precipitare; i tentativi
di porvi rimedio non ottenevano alcun risultato efficace. Consumate le scorte,
la fame divenne un male disastroso, pericoloso e inevitabile.
In
città, chiusi negozi e fabbriche, la disoccupazione imperversa e la miseria
si spande a macchia d’olio. Accattoni di mestiere e mendicanti formano una
lugubre e grossa schiera, ridotti a litigar l’elemosina, che fanno pena a
vedersi.
Il
cardinale Federigo in questa circostanza organizza i suoi soccorsi; forma tre
coppie di preti che, seguiti da facchini carichi di cibi e di vesti, girano per
la città, per ristorare chi è più bisognevole. Ma l’interessamento caritatevole del cardinale, unito alla generosità dei privati e ai
provvedimenti dell’autorità della città, si dimostra inadeguato rispetto
alla vastità del male.
Per
tutto il giorno nelle strade si ode « un ronzio confuso di voci supplichevoli, la notte, un sussurro di
gemiti,» ma non si ode « mai un grido
di sommossa ». Eppure, osserva il Manzoni, tra coloro che soffrivano
« c’era un buon numero di uomini
educati a tutt’altro che a tollerare, » per cui conclude che spesso « ci
rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio
sotto gli estremi».
Se
qualcuno era in grado di fare qualche elemosina, la scelta era ardua; all’
avvicinarsi di una mano pietosa, all’intorno era una gara d’infelici, che
stendevano la loro mano.
Poiché
le strade diventano ogni giorno di più un ammasso di cadaveri, trascorso
l’inverno e la primavera, il tribunale di provvisione decide «
di radunare tutti gli accattoni, sani ed infermi, in un sol luogo, nel
lazzaretto»
dove potranno essere aiutati a spese del pubblico. In pochi giorni gli infelici
ospitati divengono tremila; ma i più, o per godere l’elemosine della città o
per la ripugnanza di star chiusi nel lazzaretto, restano fuori. Per cacciare
dunque gli accattoni al lazzaretto, si deve ricorrere alla forza, e così, in
pochi giorni, il numero dei ricoverati sale a circa diecimila.
Ma
tale iniziativa, sia pur lodevole nelle intenzioni, per l’ammassarsi di tanti
infelici in un sol luogo, per l’organizzazione carente e per l’inadeguatezza
dei mezzi, è insufficiente. La gente dorme per terra o su paglia putrida; il
pane è alterato « con sostanze pesanti e
non nutrienti»; manca persino l’acqua potabile; perciò la mortalità
cresce a tal punto che si comincia a parlare di pestilenza.
Per
porre rimedio a questa grave e pericolosa situazione, si mandano via dal
lazzaretto tutti i poveri non ammalati, mentre gli infermi vengono ricoverati
nell’ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella.
Finalmente,
con il nuovo raccolto il popolo ha di che sfamarsi, ma la mortalità, per
epidemia o contagio, anche se con minore intensità, si protrae fino
all’autunno, quand’ecco, implacabile, un nuovo flagello si abbatte sulla
popolazione: la guerra.
Infatti
il cardinale Richelieu con il re, alla testa di un esercito, scende in Italia e
occupa Casale, tenuto prima da don Gonzalo. Nel frattempo si dispone « a
calar nel milanese» anche l’esercito di Ferdinando, nel quale pare che
covasse la peste, tanto che si fa divieto a chiunque, quando l’esercito muove
all’assalto di Mantova, « di comprar
roba di nessuna sorte dai soldati».
Ma tale divieto non è preso in alcuna
considerazione.
L’esercito
di Ferdinando, era per lo più composto da bande mercenarie che mettevano a
soqquadro tutti i paesi, asportando dalle case tutti gli oggetti di valore.