Proseguendo
la descrizione delle vicende storiche, l’autore ne fa un quadro sinistro e
desolante. Alla peste che inclemente falcia vite umane e semina sofferenze
infinite, si aggiunge la miseria generale, la mancanza di mezzi necessari, per
porvi, quant’è possibile, rimedio.
Ad
aver cura della popolazione, dovrebbe essere il governatore, ma costui,
impegnato nel prolungato assedio di Casale, trasferisce « con
lettere patenti, la sua autorità al Ferrer».
A questo
punto il Manzoni non manca di far presente, con sottile e pungente ironia, che i
mezzi finanziari per alleviare i malanni della popolazione non si trovano, perché
servono per una guerra la quale, « dopo
aver portato via, senza parlar dei soldati, un milion di persone, a dir poco,
per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana,
e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s’è visto di sopra, i
luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il
sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per
escludere il quale la guerra era stata intrapresa».
Poiché il
male imperversa sulla popolazione inerme, si fa richiesta al cardinale di una
processione solenne per le vie della città, portando il corpo di San Carlo. La
richiesta non viene accolta dal prelato, perché teme che la fiducia si volga in
scandalo, e perché il radunarsi di tanta gente possa accrescere il contagio.
Per il
perdurare e l’aggravarsi del morbo, gli uomini sono amareggiati, ma i mali non
si attribuiscono a questa o a quella causa, per la quale non ci sia altro da
fare che rassegnarsi, ma ad « una
perversità umana»,a degli untori, a persone che cospargono « un
veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo». E con questa errata
convinzione, ed esasperazione nell’animo, si va alla ricerca di presunti
untori. Si bastona perciò un vecchio ottuagenario, reo, secondo
l’allucinazione dei presenti, di aver unto le panche della chiesa di
sant’Antonio; si malmenano tre francesi, perché sospetti untori del duomo,
poiché hanno toccato una parete, per accertarsi se fosse di marmo. Né tali
episodi avvengono solo in città; anche nelle campagne si ripetono fatti simili.
Uno sconosciuto che si adagi a guardare in qua e in là, o che si butti giù per
riposarsi, è giudicato un untore; e allora è tempestato di pietre, ed è
menato, « a furia di popolo in prigione».
Date le
circostanze, (aumento delle mortalità, disagi crescenti, peste in estensione) i
decurioni ed il popolo rinnovano la richiesta della processione al cardinale;
questi resiste qualche tempo ancora, ma poi « il
senno d’un uomo contro la forza dei tempi, e l’insistenza di molti»,
cede, e fa la processione.
Il giorno
dopo, mentre regna «una fanatica
sicurezza» che la processione
debba aver stroncato la peste, le morti aumentano « con
un salto così subitaneo», che si pensa ne sia stata causa la processione
stessa. Ma la credenza popolare, diventa ormai una psicosi, attribuisce
l’effetto, « non all’infinita moltiplicazione dei contatti fortuiti, » ma alla
facilità con cui gli untori abbiano potuto eseguire « il loro empio disegno». E siccome, anche al più attento
osservatore, non era stato possibile « scorgere
untumi, macchie di nessuna sorte sui muri, né altrove, » si dice che siano
state sparse « delle polveri venefiche e
malefiche » lungo la strada e i crocicchi e che queste si siano attaccate
ai piedi scalzi di molti che avevano seguito la processione, o ai vestiti. « Era
invece il povero senno umano » — afferma lo scrittore Agostino Lampugnani
— « che cozzava coi fantasmi creati da sé».
Il numero dei
morti aumenta in modo impressionante, raggiunge al giorno punte di
tremilacinquecento. La città di Milano, che prima contava, da duecento a
duecentocinquantamila abitanti, ora è ridotta ad un quinto circa.
Ogni giorno
bisogna provvedere ad aumentare i « serventi pubblici»; specialmente monatti e apparitori: i monatti
sono addetti a « levar dalle case, dalle
strade, dal lazzaretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse e sotterrarli».
Gli apparitori, invece, precedono i carri e avvertono la popolazione, mediante
il suono di un campanello, che si ritiri al loro passaggio.
Le necessità
al lazzaretto sono così gravi e imponenti che il personale laico scarseggia;
mancano persino i medici ed è difficile reperirli. Ma in questo tragico
frangente spicca l’opera e l’assistenza degli ecclesiastici. Dove c’è
dolore e sofferenza ci sono loro; e tra questi, pronta a dare l’esempio e
l’incitamento, spicca la figura del cardinale Federigo. Ai parroci, di cui la
peste aveva fatto larga strage, scriveva: « siate
disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia,
questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un
premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un ‘anima a Cristo».
Ma se da una
parte l’opera dei religiosi è come « una sublimazione di virtù, » dall’altra non manca un aumento di
perversità da parte dei monatti, sicuri dell’impunità, a causa del caos e
quindi del «rilasciamento d’ogni forza
pubblica». Costoro sono arbitri di ogni cosa; nelle case entrano da
padroni; minacciano di trascinare anche i sani al lazzaretto se non versano
somme ingenti. Si dice persino che monatti e apparitori buttassero dai carri
indumenti infetti, « per propagare e
mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa».
Intanto la
paura dell’unzione, radicata e ingrandita, diventa un’ossessione, sfiora la
pazzia. Si dubita e si sospetta di essere untori, non solo dell’amico e del
conoscente, ma anche di parenti intimi: marito e moglie, padre, madre, fratello;
si temono persino la mensa e il letto nuziale.
