Appena Renzo
esce dal lazzaretto, una grandine di goccioloni, prima radi ma impetuosi, poi
fitti e violenti, si rovesciano sulla strada e sollevano una fragranza di
polvere, «un minuto polverìo».
Tuttavia Renzo, dopo un’afa opprimente, non si inquieta per quei goccioloni
che scendono « a secchie, » ma vi
sguazza e respira a pieni polmoni; e sente nel suo intimo una gioia
incontenibile; che il destino ha cessato di accanirsi contro di lui.
La pioggia è
come un dono di Dio, come un miracolo, perché tra una settimana spazzerà via
la peste. Perciò Renzo, con tanta gioia nel cuore, cammina senza pensare dove,
come e quando, debba fermarsi; interessa andare avanti; arrivare presto al suo
paese, parlare con qualcuno, e poi proseguire per Pasturo. E’ felice d’aver
trovato Lucia, di sapere che diverrà sua moglie, e, come un bambino, saltella,
fa qualche sgambetto, si frega le mani.
Mentre
prosegue il suo cammino, con la mente rivive tutte le ansietà e i timori del
giorno precedente: è viva, è morta, è moribonda? Ma ora questi incubi sono
passati; Lucia è viva, e il Signore ha voluto premiare le loro tribolazioni, la
loro costanza, la loro fede.
A sera giunge
a Sesto; l’acqua scende sempre a catinelle, e Renzo, inzuppato ma non stanco,
compra due pani e cammina, cammina, immerso nei ricordi del passato e nei piani
per l’avvenire. Giunto a Monza, è notte profonda; la pioggia non cessa; la
strada è come una palude, o piena di pozze; i piedi si levano a fatica. Ma
Renzo pazientemente avanza, avanza sempre. Non è ancora l’alba, quando
raggiunge la riva dell’Adda. Di questa notte fiabesca Renzo si ricorderà più
tardi «come se l’avesse passata in
letto a sognare».
Alle prime
luci dell’alba il diluvio finalmente diminuisce; scende una pioggia sottile e
lenta. Renzo prova una gioia immensa nel vedere il suo paese; e solo adesso,
quando sta per raggiungere una delle sue mete prestabilite, si avvede di essere
« dalla testa alla vita, tutto un
fradiciume, una grondaia; dalla vita alla punta de’ piedi melletta e mota».
Descrizione
chiara, efficace, secondo lo stile manzoniano. Pare proprio di vederlo, questo
personaggio, semplice e schietto; pare d’averlo davanti ai nostri occhi, non
con l’immaginazione, ma di persona; sembra che parli e che si muova.
Costeggiando
l’ultimo tratto dell’Adda, dà « un’occhiata malinconica a Pescarenico», e finalmente arriva al
suo paese; in casa dell’ospite amico. Le solite manifestazioni d’affetto;
quindi l’amico gli prepara un fuoco ristoratore, dà indumenti asciutti, e
offre qualcosa da mangiare. Ora finalmente si accorge di essere stanco; ma può
riposarsi e raccontare tante cose « per
tutta la giornata». Passa infatti tutta la giornata in casa dell’amico, e
non manca di aiutarlo in qualche lavoretto, perché Renzo è « di
quelli che si stancano di più a star senza far nulla, che a lavorare». Fa
solo « una scappatina alla casa d’Agnese, per rivedere un certa finestra».
Il
giorno seguente, di buon mattino, sotto un cielo sereno e splendente, che
fa sperare bene, va a Pasturo e trova Agnese. Quando sono l’una di fronte
all’altro, Agnese esplode in impeti di gioia, ma Renzo la consiglia di essere
prudente; lui viene da Milano e potrebbe contagiar la peste a lei, che considera
come una madre. Le dice subito, comunque, che Lucia è guarita, e che verrà
presto. Poi si siedono in un punto dell’orto su due panche, l’uno di fronte
all’altra, e si raccontano tante, tante cose. Stabiliscono infine di
sistemarsi nel bergamasco, dove Renzo ha « già
un buon avviamento». Mentre Agnese, una volta cessato il pericolo, ritornerà
a casa sua, in attesa di Lucia, egli farà qualche capatina, per « vedere
la sua mamma, » e informarla di ogni cosa.
Il
giorno seguente, dopo aver pernottato in paese, in casa dell’amico, va
dal cugino Bortolo, che trova « in buona
salute, » e non più col timore di perderla. Ormai la peste va scomparendo;
i paesi cominciano a movimentarsi; i lavori nei campi riprendono, anche se
scarseggiano, ovviamente, gli operai. Il lavoro a Renzo, grazie anche alla sua
bravura, non mancherà; intanto ha trovato una casa grande e l’ha fornita « di
mobili e d’attrezzi».
Passati
alcuni giorni, ritorna al paese nativo, divenuto quasi normale, e poi di corsa a
Pasturo a prendere Agnese e condurla a casa sua, ove trova « ogni
cosa come l’aveva lasciata». Il suo primo pensiero è di rendere la sua
casa più accogliente che può, in attesa che arrivino la figlia e la sua buona
accompagnatrice.
Renzo nel
frattempo, laborioso com’è, aiuta ora il suo ospite nella campagna, ora
dissoda l’orticello di Agnese. Del suo podere non si occupa, è troppo
abbandonato, è come « una parrucca troppo arruffata». Non mette piede neppure in casa,
perché è tutta sconquassata; anzi vorrebbe vendere tutto, e impiegare il
ricavato nel nuovo paese.
In paese
tutti accolgono festosamente Renzo, si congratulano con lui, e vogliono
conoscere le sue peripezie. Per sua fortuna non corre più pericolo; le autorità
ormai non pensano più al bando.
Renzo e don
Abbondio stanno « alla larga l’uno
dall’altro». Il curato per non sentir parlare di matrimonio e non veder
davanti agli occhi don Rodrigo e i suoi bravi, o sentire il cardinale con i suoi
argomenti; Renzo perché ha deciso di parlargliene a tempo opportuno, per non
creare imbrogli o difficoltà.
Lucia
intanto, uscita dal lazzaretto, sta facendo la quarantena in casa della sua
benevola protettrice, durante la quale è allestito il suo corredo. Ella parla
della signora (Gertrude) che l’aveva ospitata nel monastero, e apprende dalla
vedova che, « caduta in sospetto
d’atrocissimi fatti», trasportata in un monastero di Milano, accusatasi,
si è inflitta per la vita, volontariamente, il più severo supplizio. Lucia
apprende in paritempo, e se ne addolora, che padre Cristoforo è morto.
Giunto il
giorno della partenza, Lucia esprime il desiderio di passare dai suoi vecchi
padroni: donna Prassede e don Ferrante. La vedova la conduce, e giuntavi,
apprende che l’una e l’altro sono morti.
Don
Ferrante, l’uomo dotto, non credeva alla peste; e per dar vigore alle sue
affermazioni, faceva dei ragionamenti assurdi e strampalati, ai quali però
l’autore dice che non manca la concatenazione. Egli attribuiva la peste ad una
fatale congiunzione di pianeti. La sua eresia e noncuranza ha fatto contrarre il
male che l’ha condotto alla tomba, «come
un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».