Finalmente
i tre viaggiatori, dopo una sera tanto agitata, per il matrimonio fallito, e il
viaggio durato una notte intera, giungono a Monza. Qui, fatta colazione, la
compagnia, con tanta tristezza nell’anima, si separa: Renzo si avvia verso
Milano; Agnese e Lucia, guidati dal «buon
barocciaio», verso il convento, dove il padre guardiano, apprendendo dalla
lettera che la sorte delle donne sta tanto a cuore a padre Cristoforo, le
conduce al monastero della signora, onde procurar loro colà asilo.
Diciamo
subito che la signora, di cui parla il padre guardiano, è Gertrude, figlia di
un principe, alla quale l’autore, per tracciarne li profilo, dedica questo
capitolo e quello seguente.
Gertrude
è vittima innocente dell’orgoglio del padre, di un padre perfido ed indegno,
che la costringe a divenire monaca, pur sapendo che in lei non c’è tale
vocazione; tutto questo perché è ossessionato dalla insufficienza di mezzi,
idonei a conferire decoro al suo casato. E animato da questi insani propositi,
fa subire la stessa sorte ai fratelli cadetti, di modo che tutte le sostanze
restino al primogenito.
Essa
resta rinchiusa in convento per otto lunghi anni, fino a quattordici anni, età
in cui può pronunciare i voti. In tale periodo sono orditi inganni su
inganni. Per distoglierla dal suo naturale istinto di partecipare alla vita
attiva del mondo, si lascia intravedere la possibilità di raggiungere la più
alta carica della comunità. Ma un eventuale privilegio di supremazia in
convento è una consolazione evanescente, perché quando le compagne parlano di
feste, di nozze, di vestiti e di pranzi, ella sente pesare un destino avverso su
di sé, e spera in quei momenti di poter negare il consenso di prendere il velo,
e quindi potersi maritare e « godersi il
mondo ».
Per
questo Gertrude; consigliata anche da una sua amica fidata, si decide a scrivere
una lettera al padre, manifestando timidamente le sue intenzioni di non prendere
il velo. Per questa lettera, alla quale il padre non risponde, Gertrude è
ammonita dalla superiora per un grave fallo commesso, che però non viene
rivelato.
Dopo
otto anni di permanenza in monastero, giunge il tempo, come vuole la regola, di
tornare in famiglia, prima del voto. Qui è accolta da tutti con indifferenza e
diffidenza. La tattica del principe, che nulla chiede e nulla impone, è chiara:
far capire alla figlia che in convento, anche se destinata ad un umiliante
accoramento, sta meglio che in casa. Tutti la guardavano come un’indegna, come
se fosse rea chissà di quale misfatto. Quando, poi, la cameriera la sorprende
che aveva scritto un biglietto diretto al paggio, e che invece va a finire nelle
mani del padre, i suoi guai aumentano. Per prima cosa è rinchiusa, come se
fosse un soggetto pericoloso, dentro una camera e sorvegliata a vista, mentre il
paggio è subito licenziato.
Tappata
in quella stanza e sorvegliata da quella dispettosa guardiana, che l’aveva
sorpresa col biglietto in mano, sente uno struggimento insopprimibile, « un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole,
d’esser trattata diversamente ». Perciò, nella speranza di commuovere il
padre, non osando affrontarlo personalmente, gli scrive una lettera, «implorando
il perdono ».