La
notizia della calata dell’esercito nemico apporta scompiglio e paura in tutti,
ma certamente in modo particolare in don Abbondio. Il Manzoni pare che si
diverta nel descrivere ad ogni occasione lo sbigottimento e lo smarrimento di
quest’uomo. Non v’è dubbio che il curato alla paura reale aggiunge quella
immaginaria. Egli vorrebbe fuggire «prima di tutti e più di tutti;» ma in ogni luogo e in ogni strada
vede « ostacoli insuperabili e pericoli
spaventosi». E così, «stralunato
e mezzo fuor di sé,» rincorre Perpetua per concertare una decisione, ma
costei, affaccendata a nascondere in soffitta gli oggetti di maggior valore,
rimanda ogni decisione a più tardi, e se la piglia col suo padrone che in quei
momenti potrebbe pure aiutarla, « invece
di venir tra i piedi a piangere e a impicciar». Intanto la gente scappa,
per sfuggire alla barbarie nemica; ma don Abbondio, disfatto dal terrore, non
riesce a coordinare le idee; è prigioniero della sua paura. Perpetua però,
sistemate alla men peggio le cose, e sotterrati i denari sotto il fico, è sul
punto « di prenderlo per un braccio, come
un ragazzo, e di strascinarlo su per una montagna,» quando Agnese, per loro
sollievo, giunta opportunamente, propone di rifugiarsi dall’innominato, che le
aveva promesso di aiutarla in qualunque circostanza. In quel castello, così ben
munito, sarebbero al sicuro. Ma don Abbondio è perplesso, non sa prendere una
decisione, e chiede il parere di Perpetua, che prontamente giudica la proposta
di Agnese provvidenziale, come piovuta dal cielo.
Durante
il viaggio verso il castello don Abbondio, tremebondo com’è, pensa che tutti
complottino contro di lui, dalla persona più umile all’imperatore. E se la
prende col duca di Nevers, con l’imperatore, col governatore che dovrebbe «
tener lontani i flagelli dal paese ».
Perpetua,
premurosa ed interessata, ora che può pensare con calma, è angustiata per la
roba nascosta in fretta e malamente. Don Abbondio, ormai non molto preoccupato
per la vita, rimprovera a Perpetua di non aver la testa a posto; ma Perpetua,
assumendo un aspetto stizzoso, « mettendo i pugni sui fianchi » respinge le accuse, e si lamenta
che se la roba non è stata sistemata bene, la colpa è del suo padrone, sempre
pauroso e tra i piedi, e perché non è stata aiutata da nessuna.
Anche
Agnese ha i suoi guai; ma non è amareggiata per eventuali danni che potrà
subire, ma perché pensa che con il precipitare degli avvenimenti, in autunno,
Lucia non sarà condotta da donna Prassede al paesino stabilito, e perciò non
potrà riabbracciarla.
Mentre
si avviano verso il castello dell’innominato, don Abbondio è accompagnato
dalla fedele e inseparabile paura. Neppure quando si trova in casa del sarto,
che abita sulla via che conduce al castello, e che Agnese propone di visitare,
si sente tranquillo, malgrado gli si dica che il castello è un luogo sicuro,
che ogni gesto dell’innominato a volto a fin di bene, la servitù rimasta è
gente da non temere.
Che
l’innominato fosse cambiato, dopo l’incontro con il cardinale, era la verità.
Egli infatti, memore e pentito delle violenze commesse, e convinto che « ogni
male che gli venisse fatto, sarebbe un’ingiuria riguardo a Dio, ma riguardo a
lui una giusta retribuzione», camminava senza scorta e senza armi. Ma
nessuno gli fa del male; da quando ha sostituito la ferocia con la mansuetudine,
con la bontà, non vi è più persona che nutra sentimenti di vendetta, anzi è
ammirato da tutti, persino dalla forza pubblica.
Il
Manzoni in questo capitolo riesce a descrivere in modo
meraviglioso, tutta la forza morale di quest’uomo conquistata sulle
rovine dei suoi crimini, come il sorgere di un giorno radioso, dopo una notte
tempestosa.
Egli
considera il suo castello come un asilo dei deboli; e quando sopraggiunge
qualche fuggiasco o qualche sbandato, lo accoglie «
con espressioni piuttosto di riconoscenza che di cortesia ».
I
suoi servitori, « pochi e valenti » armati ben bene, son pronti a difendere il
castello da eventuali attacchi dei lanzichenecchi e cappelletti. Dispone altresì
che apprestino letti e ritirino gran quantità di cibi, per meglio accogliere i
nuovi arrivati, sempre in numero crescente. Egli stesso non sta mai fermo;
nell’ansia di far bene, dà ordini e controlla di persona se tutto è in
regola, « dentro e fuori del castello, su
e giù per la salita, in giro per la valle ». Certamente costui è un uomo
di prima grandezza che, in contrapposizione al suo passato, ha un fascino tutto
particolare.
