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Riassunto capitolo trentatreesimo

I Promessi Sposi

 

 

 

A fine agosto, quando la peste tocca il più alto vertice di mortalità, giunge l’ora anche per don Rodrigo di rendere conto del suo operato. Ritornando insieme al Griso e a qualche bravo, da un’orgia, in cui era stato uno dei più allegri della compagnia, (aveva cantato anche « una specie di elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste due giorni prima») si sente stanco, abbattuto, con il respiro affannato e una forte arsura. Indubbiamente la peste, inclemente anche per lui, l’ha colpito. Ma egli ancora non vuole ammetterlo; attribuisce il suo malessere, al caldo o al troppo vino tracannato. Mentre il Griso per prudenza sta alla larga, giunti al palazzotto, don Rodrigo cerca di dormire; ma non ha un sonno tranquillo, spesso si sveglia, come se qualcuno lo scuotesse; finalmente si addormenta e fa « i più brutti e arruffati sogni del mondo». Sogna fra l’altro padre Cristoforo nel momento in cui aveva iniziato a pronunziare la terribile profezia, e poi come un ossesso si sveglia; sente caldo; sente i battiti del cuore velocissimi; sente un dolore a sinistra; porta la mano, poi la vista, e vede « un sozzo bubbone d’un livido paonazzo; » l’assale il terrore della morte. Chiama a gran voce il Griso, che crede erroneamente essergli ancora fedele, mentre lui sta architettando un piano di tradimento. Quando giunge al suo cospetto, don Rodrigo, promettendo che gli farà più bene di prima, gli dice di chiamare un medico, e che venga subito.

Il Griso va, ma invece di tornare con il medico per curargli la peste, vi conduce due monatti.

Alla vista dei due monatti don Rodrigo diventa selvaggio come una belva; sente addosso una rabbia struggente; caccia una mano sotto il capezzale per prendere la pistola, l’afferra, ma, prima che possa sparare, uno dei monatti gli è subito addosso, lo disarma e gli fa « un versaccio di rabbia insieme e di scherno». Don Rodrigo, ormai fuor di sé, riunendo le residue forze, tenta di divincolarsi dalla presa del forzuto monatto, per uccidere quello scellerato del Griso, e poi che si faccia di lui qualunque cosa. Ma il monatto non cede e perciò don Rodrigo, assalito da un delirio irrefrenabile, dopo un terribile grand’urlo ed un ultimo più violento sforzo per liberarsi, cade esausto, stremato. Dopo che il Griso e l’altro monatto hanno messo a soqquadro tutta la casa e sottratto denaro e oggetti di valore, lo portano al lazzaretto.

Anche il Griso ha la punizione che merita; mentre fruga, per procurarsi la sua parte di bottino, ha cura di non toccare i monatti; ma nella fretta resta vittima della sua avidità; egli infatti prende e scuote incautamente il vestito del suo padrone, per vedere se c’è denaro, ed è contagiato di peste. Perciò il giorno successivo, mentre sta « gozzovigliando in una bettola»; gli vengono meno le forze e cade privo di sensi. E muore prima che i monatti, dopo averlo depredato, lo portino al lazzaretto.

Intanto Renzo, nascosto nel bergamasco sotto il falso nome di Antonio Rivolta, contagiato di peste e poi guarito, cessato il pericolo d’essere ricercato, inizia la dolorosa ricerca di Lucia, questa volta con l’approvazione del cugino Bortolo, in precedenza tante volte sconsigliata.

Il viaggio di Renzo è colmo di ansia, inquietudine e desolazione. Ai suoi occhi, « dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, » si presentano spettacoli orribili. Verso sera giunge al suo paese, ed è assalito « da una folla di rimembranze dolorose, » mentre regna un silenzio tombale.

La prima persona che incontra è Tonio, a cui la peste gli tolse « il vigore del corpo insieme e della mente». Infatti Renzo gli rivolge qualche domanda, ma Tonio, una volta così sveglio, ora come incantato, balbetta parole sconnesse. Poi incontra don Abbondio, anche lui colpito dalla peste, col volto pallido e smunto. Quando il curato se ne accorge della presenza di Renzo, terrorizzato, perché potrà essere ancora causa di guai. con un gesto di « meraviglia scontenta, » lo esorta ad andarsene presto. Su richiesta di Renzo, che assicura che partirà molto presto, don Abbondio dice di non sapere niente di Lucia, che Agnese si trova dai suoi parenti, a Pasturo, dove « dicono che la peste non faccia il diavolo come qui, »che padre Cristoforo è andato via e non ne sa niente, e che Perpetua è morta di peste. Dopo di che, sempre preso dalla paura, rinnova l’invito di andarsene subito, tanto più che è ricercato.

Proseguendo il cammino, Renzo passa davanti alla sua vigna: uno spettacolo orribile! Si avvicina alla sua casa: « al rumore dei suoi passi, al suo affacciarsi, uno scompiglio, uno scappare incrocchiato di topacci; » si caccia dentro; le sozzure trovate sul pavimento, ed altre schifezze, provano che lì c’erano stati i lanzichenecchi. Se ne va, « mettendosi le mani ne’ capelli».

E’ quasi buio, quando giunge a casa di un amico che sta « con gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e inselvatichito dalla solitudine». L’incontro è patetico e affettuoso, e scoprono di essere « molto più amici di quello che avesser mai saputo d’essere».

Si scambiano parecchie informazioni, non certo allegre, «cose da levarsi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo».

Il giorno dopo, di buon mattino, Renzo si avvia verso Milano, sperando di trovar Lucia. Dopo aver camminato tutto il giorno, per luoghi desolati e squallidi, la sera, giunto a poca distanza da Milano, pernotta in una cascina, avendo per letto un mucchio di fieno. La mattina dopo, in breve tempo, sbuca sotto le mura di Milano.

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