A fine agosto, quando la peste tocca il più alto vertice di mortalità,
giunge l’ora anche per don Rodrigo di rendere conto del suo operato.
Ritornando insieme al Griso e a qualche bravo, da un’orgia, in cui era stato
uno dei più allegri della compagnia, (aveva cantato anche «
una specie di elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste due
giorni prima») si sente stanco, abbattuto, con il respiro affannato e una forte
arsura. Indubbiamente la peste, inclemente anche per lui, l’ha colpito. Ma
egli ancora non vuole ammetterlo; attribuisce il suo malessere, al caldo o al
troppo vino tracannato. Mentre il Griso per prudenza sta alla larga, giunti al
palazzotto, don Rodrigo cerca di dormire; ma non ha un sonno tranquillo, spesso
si sveglia, come se qualcuno lo scuotesse; finalmente si addormenta e fa « i più brutti e arruffati sogni del mondo». Sogna fra l’altro
padre Cristoforo nel momento in cui aveva iniziato a pronunziare la terribile
profezia, e poi come un ossesso si sveglia; sente caldo; sente i battiti del
cuore velocissimi; sente un dolore a sinistra; porta la mano, poi la vista, e
vede « un sozzo bubbone d’un livido
paonazzo; » l’assale il terrore della morte. Chiama a gran voce il Griso,
che crede erroneamente essergli ancora fedele, mentre lui sta architettando un
piano di tradimento. Quando giunge al suo cospetto, don Rodrigo, promettendo che
gli farà più bene di prima, gli dice di chiamare un medico, e che venga
subito.
Il
Griso va, ma invece di tornare con il medico per curargli la peste, vi
conduce due monatti.
Alla vista
dei due monatti don Rodrigo diventa selvaggio come una belva; sente addosso una
rabbia struggente; caccia una mano sotto il capezzale per prendere la pistola,
l’afferra, ma, prima che possa sparare, uno dei monatti gli è subito addosso,
lo disarma e gli fa « un versaccio di rabbia insieme e di scherno». Don Rodrigo, ormai
fuor di sé, riunendo le residue forze, tenta di divincolarsi dalla presa del
forzuto monatto, per uccidere quello scellerato del Griso, e poi che si faccia
di lui qualunque cosa. Ma il monatto non cede e perciò don Rodrigo, assalito da
un delirio irrefrenabile, dopo un terribile grand’urlo ed un ultimo più
violento sforzo per liberarsi, cade esausto, stremato. Dopo che il Griso e
l’altro monatto hanno messo a soqquadro tutta la casa e sottratto denaro e
oggetti di valore, lo portano al lazzaretto.
Anche il
Griso ha la punizione che merita; mentre fruga, per procurarsi la sua parte di
bottino, ha cura di non toccare i monatti; ma nella fretta resta vittima della
sua avidità; egli infatti prende e scuote incautamente il vestito del suo
padrone, per vedere se c’è denaro, ed è contagiato di peste. Perciò il
giorno successivo, mentre sta « gozzovigliando
in una bettola»; gli vengono meno le forze e cade privo di sensi. E muore
prima che i monatti, dopo averlo depredato, lo portino al lazzaretto.
Intanto
Renzo, nascosto nel bergamasco sotto il falso nome di Antonio Rivolta,
contagiato di peste e poi guarito, cessato il pericolo d’essere ricercato,
inizia la dolorosa ricerca di Lucia, questa volta con l’approvazione del
cugino Bortolo, in precedenza tante volte sconsigliata.
Il viaggio di
Renzo è colmo di ansia, inquietudine e desolazione. Ai suoi occhi, « dopo
lunghi tratti di tristissima solitudine, » si presentano spettacoli
orribili. Verso sera giunge al suo paese, ed è assalito « da
una folla di rimembranze dolorose, » mentre regna un silenzio tombale.
La prima
persona che incontra è Tonio, a cui la peste gli tolse « il
vigore del corpo insieme e della mente». Infatti Renzo gli rivolge qualche
domanda, ma Tonio, una volta così sveglio, ora come incantato, balbetta parole
sconnesse. Poi incontra don Abbondio, anche lui colpito dalla peste, col volto
pallido e smunto. Quando il curato se ne accorge della presenza di Renzo,
terrorizzato, perché potrà essere ancora causa di guai. con un gesto di « meraviglia
scontenta, » lo esorta ad andarsene presto. Su richiesta di Renzo, che
assicura che partirà molto presto, don Abbondio dice di non sapere niente di
Lucia, che Agnese si trova dai suoi parenti, a Pasturo, dove « dicono
che la peste non faccia il diavolo come qui, »che padre Cristoforo è
andato via e non ne sa niente, e che Perpetua è morta di peste. Dopo di che,
sempre preso dalla paura, rinnova l’invito di andarsene subito, tanto più che
è ricercato.
Proseguendo
il cammino, Renzo passa davanti alla sua vigna: uno spettacolo orribile! Si
avvicina alla sua casa: « al rumore dei suoi passi, al suo affacciarsi, uno scompiglio, uno
scappare incrocchiato di topacci; » si caccia dentro; le sozzure trovate
sul pavimento, ed altre schifezze, provano che lì c’erano stati i
lanzichenecchi. Se ne va, « mettendosi le
mani ne’ capelli».
E’ quasi
buio, quando giunge a casa di un amico che sta « con
gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e
inselvatichito dalla solitudine». L’incontro è patetico e affettuoso, e
scoprono di essere « molto più amici di quello che avesser mai saputo d’essere».
Si scambiano
parecchie informazioni, non certo allegre, «cose
da levarsi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un
sollievo».
Il
giorno dopo, di buon mattino, Renzo si avvia verso Milano, sperando di trovar
Lucia. Dopo aver camminato tutto il giorno, per luoghi desolati e squallidi, la
sera, giunto a poca distanza da Milano, pernotta in una cascina, avendo per
letto un mucchio di fieno. La mattina dopo, in breve tempo, sbuca sotto le mura
di Milano.
